Negli ultimi 20 anni nella nostra penisola si sono susseguite numerose leggi che trattavano del sistema pensionistico, modificando, al contempo, di volta in volta, i requisiti e l’età necessari ai cittadini per andare in pensione. L’obiettivo perseguito da ogni governo, italiano ed estero, è ovviamente quello di risparmiare su questa gravante spesa che annualmente pesa sul bilancio statale.
La situazione si è particolarmente aggravata a partire dalla metà degli anni duemila, a causa dell’invecchiamento della popolazione, dovuto a cure mediche ed ad una alimentazione sempre migliori, le spese dello stato crescono sempre più. Oltre a ciò bisogna sottolineare un ulteriore importante dato, la forte tendenza alla denatalità che ha colpito l’Italia, e molti paesi “occidentali”.
Il problema della denatalità, unito a quello del lavoro, sempre meno stabile e sicuro per i giovani, sta conducendo il nostro paese in un vicolo cieco. Sono infatti gli elementi “attivi” della cittadinanza, i lavoratori, a versare i contributi ed a finanziare le pensioni. In assenza di versamenti contributivi stabili, ed al contempo con l’aumento del numero dei pensionati, la situazione diviene mano mano sempre più critica.
Il nuovo sistema francese e le proteste dei cittadini
È sicuramente saltata all’orecchio dei più la notizia di pochi giorni fa che riguarda il nuovo sistema contributivo messo in atto dai nostri “cugini” d’oltralpe. L’approvazione della riforma delle pensioni è stata a lungo contestata sia dai comuni cittadini sia dai rappresentati dei lavoratori, i sindacati, ma è riuscita a passare nel Parlamento salvandosi dalla mozione di sfiducia. Nella nuova legge francese punto cardine è l’aumento dell’età pensionistica da 62 a 64 anni, tale aumento, sottolineano le autorità, sarà comunque non repentino, ed entrerà a pieno regime solo nel 2030.
Al contempo però, il governo, ha previsto l’aumento delle pensioni minime a 1.200 euro al mese, e la presenza di alcune norme che tendono a penalizzare i lavoratori che decidono di lasciare i propri incarichi lavorativi anticipatamente. La riforma sottolinea infatti che solo con 65 anni di età e con almeno 40 anni di contributi versati si potrà ottenere per intero il proprio assegno pensionistico, che verrà invece ritoccato al ribasso in caso di addio anticipato.
Il sistema francese, per quanto riguarda le modalità di ottenimento del denaro da parte dello stato per finanziare le pensioni, funziona in maniera molto simile a quello italiano, diverso è invece, ad esempio, il sistema inglese, dove ogni lavoratore versa i contributi per se stesso, non contando dunque su un bilancio pubblico, ma privato.
A che età si va in pensione in Europa?
Osservando anche altri paesi europei, risulta interessante notare comunque una certa disparità nel trattare il tema, con personalissime visioni e modi di gestire il tema. Osserviamo insieme l’età a cui alcuni paesi dell’Europa concedono ai propri cittadini la possibilità di andare in pensione. In generale l’età media pensionistica nel nostro continente è 64 anni e 4 mesi per gli uomini e 63 e 4 mesi per le donne, ma tali dati sono sicuramente più bassi rispetto a ciò che accade in paesi come: l’Italia, la Grecia e la Danimarca, Belgio, Bulgaria, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, mentre altri, come Polonia, Romania e Slovacchia tentano di abbassare tale quota portandola a 61 anni per le donne e 62 per gli uomini.
Le riforme nel nostro paese
La riforma fiscale italiana, soprattutto con il nuovo governo Meloni, ha portato la “novità” della Quota 103. Con tale riforma pensionistica, che risulta essere un esempio di formula di uscita anticipata dal mondo del lavoro, si può andare in pensione già all’ età di 62 anni, con almeno 41 anni di contributi versati allo stato.
La Quota 103 era stata inizialmente pensata per essere “attiva” solo un anno, prima di una sostanziale riforma strutturale del sistema, che molto probabilmente è stata ancora una volta rimandata, per varie motivazioni. Non è un caso infatti che si parli già di una proroga di almeno un ulteriore anno a tale sistema, che resterà in vigore fino alla fine del 2024, sebbene ci siano ancora alcuni elementi da chiarire e di cui discutere.
Come emerge dall’ultimo monitoraggio effettuato nel 2022, su un totale di oltre 770.000 pensioni concesse nell’anno, oltre il 30% erano riconducibili a prepensionamenti e formule anticipate, la stessa percentuale cioè delle pensioni di vecchiaia.